Nel 1989 l'Italia perse uno dei suoi più grandi uomini di cultura. Moriva, infatti, il 20 Novembre di quell'anno, Leonardo Sciascia, e per sua volontà uscì postumo il romanzo breve "Una Storia Semplice" . Trattasi di giallo poliziesco. Così chiude la sua produzione "autorizzata" Leonardo Sciascia. Con questa frase che sembra un epitaffio posto sulla storia di Sicilia: « Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: "E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?" Riprese cantando la strada verso casa. »
E se nel suo romanzo più noto, nel capolavoro "Il Giorno della Civetta", Sciascia disse: « Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già, oltre Roma... » Allora l'epitaffio con cui Sciascia ha chiuso la sua produzione vale per tutto il nostro paese. Fine degli anni Ottanta. Fine in termine cronologico. Fine in termine di menti intellettivamente vivaci, forse. Inizio dell'epoca dei libri, ed inizio di quella della televisione.
Inizio della mafia di Cosa Nostra che tutti oggi conosciamo. Sciascia ha parlato della Sicilia e della sicilianità per tutta la sua storia letteraria, non limitandosi, non limitando il raggio d'azione della sua penna, ma assecondando il suo bisogno e la sua voglia di interrogarsi su una realtà non solo geografica. La sicilianità è un modo di sentire il mondo e Sciascia al mondo ha voluto portare questa identità, tramite le lettere, perchè tutti potessero conoscerlo. Per capire da cosa proviene veramente la cultura mafiosa, per portare in superficie quello che l'opinione comune ha de sempre voluto seppellire.
La cultura siciliana conosciuta attraverso Sciascia. Perchè questo nostro viaggio tra i libri può essere un viaggio nel nostro paese. Napoli ieri, a Sicilia oggi. Cosa meglio di un libro per conoscere il mondo, essere il mondo? Diceva Leonardo Sciascia "anche il libro è una cosa, lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per tener su un tavolino zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo apri e leggi diventa un mondo; e perché ogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo?"
La cultura siciliana può rimanere sconosciuta ai più, credo che si potrebbe vivere cento anni in Sicilia da non siciliano e non si capirebbe mai il gesto dell'uomo che ha le sue radici fin dentro la terra di Sicilia. Possiamo andare in Sicilia da stranieri, percorrere la strada di Capaci e sentire le vibrazioni della terra ancora nel ricordo di quel giorno di Maggio in cui la terrà diventò il muro contro cui si schiantarono il Giudice Falcono, sua Moglie e la sua Scorta. Questo possiamo, ma non potremmo mai essere la Sicilia. I siciliani amati da Sciascia sono quelli silenziosi, quelli descritti nel racconto "Il Quarantotto" per bocca di Ippolito Nievo : "io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all'azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori... una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e famigliare la morte... Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice..." Così possiamo capire la cultura siciliana, solo un pò. Attraverso le sue parole.
L'ultimo testo di Sciascia, mette il punto alla sua ricerca letteraria.
La sua volontà di chiudere con quel testo, con quella frase, è la volontà di un uomo che ha dato tutto il suo talento per la sua terra, che non si è voluto arrendere, ma che alla fine ha riconosciuto la realtà. Ovvero che la sua terra, che quei siciliani silenziosi che tanto ama, nulla hanno potuto contro l'omertà.
La stessa polemica scaturita in seguito all'articolo "I professionisti dell'antimafia" apparso il 10 Gennaio 1987 sul Corriere della Sera a firma di Leonardo Sciascia, credo fosse dovuta alla frustrazione di un uomo che non si vuole rassegnare al fatto che la sua terra sia esportata solo con questa etichetta.
E certo che lì, in quel momento e con quelle parole, Sciascia ha ferito le coscienze di tutti noi che tanto lo abbiamo amato. Perchè nel momento in cui, in quel caso, si scagliò contro il giudice Borsellino, il suo fervore siculo, il suo amore carnale per la terra in cui erano fisse le sue radici, lo tradirono.
Abbiamo testimonianza scritta della reazione del Giudice Borsellino nei confronti dell'articolo di Sciascia; Borsellino il giorno prima la pubblicazione dell'articolo ricevette la lettera di Antonina Setti Carraro, la madre di Emanuela, trucidata con il marito, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa alla quale rispose così, dopo aver letto l'articolo del Corriere:
«Gentilissima signora, la Sua graditissima lettera mi è giunta poco prima che sul mio nome scoppiassero le note polemiche a seguito delle accuse di "carrierismo" lanciatemi da Leonardo Sciascia. Se in questa incredibile vicenda sono riuscito a mantenere la serenità che mi ha consentito di non lasciarmi andare in incontrollate reazioni, lo devo anche alla commozione ed all' orgoglio che le Sue parole avevano in me poco prima suscitato.
Il fatto di essere ricordato con tanto affetto e stima da coloro che portano addosso i segni della barbarie mafiosa - continua Borsellino - e, specialmente, da Lei che è il ricordo vivente del martirio di Carlo Alberto ed Emanuela, mi rende sicuro di avere fatto il mio dovere spassionatamente e di avere operato le mie scelte di vita all' unico scopo a cui è consacrato il mio lavoro».
Un anno dopo questa vicenda Sciascia e Borsellino si chiarirono.
Non c'è motivo, oggi, di patteggiare per l'uno piuttosto che per l'altro. Non c'è motivo di chiedere le scuse per l'uno o per l'altro.
Mi piace pensare, forse sbagliando, che, mi ripeto, Sciascia fosse stato tradito dal suo amore per la Sicilia che vedeva annegare.
Mi piace pensare che l'amore dell'autore de "Il giorno della civetta" avesse creduto nella resurrezione per il suo popolo e che davanti al fallimento di quell'illusione avesse avuto bisogno di un nemico in carne ed ossa contro cui scagliarsi. Forse stanco di inventare dei personaggi nei suoi romanzi perchè nella realtà quegli uomini d'onore si nascondevano nelle pieghe delle montagne siciliane.
Quella fu la fine della carriera di Sciascia secondo me, e il rendersi conto di quell'errore ha portato se stesso, prima di chiunque altro, alla consapevolezza di aver perso la sua battaglia.
Ed è così che la mafia vince, perchè non uomini sono contrapposti agli uomini. Uomini con dei sentimenti, e con la voglia di speranza.
La speranza di Sciascia finisce con l'epitaffio che chiude la sua produzione, pubblicato dopo la sua morte, come voleva ed aveva comandato.
Prima della fine di tutto il resto.
Alla fine gli uomini di sicilia che amava tanto, sono loro che hanno perso che si sono voltati per non vedere... riprendendo cantando la strada di casa!
di LEONARDO SCIASCIA (dal Corriere della sera , 10 gennaio 1987)
Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono «eroi della sesta»:
1) «Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta , Einaudi, Torino, 1961).
2) «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo , Einaudi, Torino, 1966).
Il punto focale . Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane «ricercatore» dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla «mafia in sé» quanto a quel che «si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi – si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro – anche se alluvionata di retorica – all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga , Pirandello e Guttuso.
Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti – a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) – siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, «en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il «lieto fine» – e se non lieto edificante – era nell'aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.
Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la «pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.
Nel primo fascismo. Idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che – nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi «risorgimentali» – volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).
Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange «rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano – garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine – liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.
Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto. Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse – quel periodo di ozio – a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.
Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.
Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".
Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria – è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?